Ept Sanremo 2009: aggiornamenti Day 3, l’analisi

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Ancora 4 tavoli: senza big e un basso livello di gioco… Giorgio Caroli fa il punto della situazione

Sono rimasti 4 tavoli all’Ept di Sanremo: è da lì che arriveranno i 9 finalisti di giovedì, che si contenderanno il primo premio da 1,5 milioni. Dando una scorsa al chip count, un elemento balza subito agli occhi: mancano i big. Nel precedente articolo apparso su questo blog, Luciana ha voluto lanciare una provocazione, che però condivido solo in parte: non credo che Minieri, Pagano, Pescatori o gli altri “battano la fiacca”. Semplicemente, ci sono dei periodi no, settimane, anche mesi, in cui “non ti girano le carte”. Molti giocatori, pro, semipro e dilettanti attraversano periodi negativi più o meno lunghi: è la cosiddetta varianza. E quando la varianza vira al negativo, non ci puoi fare niente.

In più, nei tornei lunghi come l’Ept, specie nelle fasi centrali, quando i bui si fanno considerevoli rispetto allo stack di moltissimi giocatori, comincia il fenomeno della roulette russa: chi rimane corto, semplicemente si butta all-in, spesso con mani deboli. KQ suited, 10-9, Asso e carta, una coppietta, mani che normalmente vengono considerate ‘marginali’ e quindi foldate diventano improvvisamente monster hands che autorizzano all’all-in preflop. E chi deve chiamare con mani vere, tipo AK o JJ, non ha che un’alternativa: fare call senza alcun tipo di informazione o quasi. In pratica decidere di giocarsi fino a ¼ di stack alla cieca, senza informazioni.

A rischio anche chi chiama con una mano nettamente superiore, AA, KK o QQ: lo scoppio, alla texana, è sempre in agguato. E allora strada spianata ai fenomeni che prendono colore runner runner buttandosi con Asso e scartina, che con coppie di 5 settano al flop, che scoppiano mani Ak con un K-J (la donk hand non solo se calla, ma anche se rilancia). Di contro spesso a casa chi invece sa giocare, ma in quella particolare occasione è stato davvero sfortunato. L’unico risultato di questo tipo di gioco sono i ‘monster stack’ di Dragan Galic (1.386.000 chips) che quasi doppia il secondo in classifica (l’americano Steven Silverman con 865.000). Stack enormi ma che alla fine ‘drogano’ l’average e il torneo, frutto di una serie infinita di players out, quasi tutti all-in preflop contro ‘il mostro’, che si dimostra imbattibile nei coinflip e nelle rincorse.

Tutto questo per spiegare, una volta per tutte, che un colpo che giochi all’80% di outs lo vinci 80 volte su 100, ma non decidi tu in quale occasione: può essere che lo perdi proprio in bolla all’Ept o all’heads up finale delle World series. Quindi puoi anche partire davanti, e di molto: se è nera, l’opponent farà scala all’ultima carta da stradominato. E non c’è bravura in questo: la mano la vince (in teoria) chi allo show down è meglio, ma il piatto lo prende chi all’ultima carta ha il punto migliore. E non conta se ha centrato la mono-out: chips a lui.

Per questo, dopo anni di tornei e partite, non mi sentirei di parlare di campioni che battono la fiacca o di ‘big’ che non si impegnano. Non penso che Luca o Dario o Max non si siano impegnati, perché le sponsorizzazioni, seppur ricche, uno deve anche tenersele e i risultati contano, quando rinegozi un contratto. Tutti in varianza negativa allora? Non credo nemmeno a questo, ma un solo torneo con  oltre mille iscritti non mi pare un banco di prova sufficiente. Non dimentichiamo che a Dortmund, meno di un mese fa, Luca ha fatto un ottimo tavolo finale e ha subito uno scoppio clamoroso. Per non parlare di Dario, che non ha ottenuto grandi risultati nel live ma che online sta andando forte. O anche degli sconosciuti Nunes e Spinelli: possono forse aver peccato di ingenuità, ma chiamare con doppia coppia con 3 quindi di scala sul board o andare all-in con QQ prima del flop non sono veri  errori.

Certo è che le grandi sponsorizzazioni, il giocare con la casacca di questa o quella poker room, il passare forse più tempo a girare spot che al tavolo da gioco possono alla lunga minare il carattere di un PPP, ma non c’è niente che tenga: il poker alla fine è un gioco di carte e le carte devono girare. Altrimenti anche il migliore dei campioni ‘va in bianco’

Ultima notazione di carattere tecnico: in questo torneo c’erano moltissimi ‘novellini’, qualificati magari con un satellite da 250 euro giocato in un circolo o da 100 euro online. Un rischio altissimo averli di fronte: non hanno speso praticamente niente per la loro sedia sanremese (e quindi non hanno il complesso da buy-in elevato) e molte volte si sono qualificati in maniera rocambolesca, a tornei di paese dove ancora è oscuro il motivo di uno split pot (e ce ne sono molti). Guarda caso, in massima parte sono proprio loro gli scoppiatori, che però alla lunga non vanno che passare gettoni in giro per i tavoli.

Mi spiego: per leggere un bluff, un semibluff mascherato da value bet, per non fare call con top pair con una potenziale scala al turn, per non chiamare con coppietta alla ricerca di un improbabile tris all’ultima carta bisogna essere dei giocatori, altrimenti la cosa più semplice, in caso di assoluta assenza di letture, è fare ‘call’ con top pair e vedere che succede: dopotutto, è il pensiero automatico dello scoppiature medio, “se cascano le mie vinco, senno’ ho perso 250 euro”. I grandi tornei erano tali perché costavano un sacco di soldi e la gente, prima di buttarsi a scoppio, ci pensava. Ora sono grandi solo perché hanno la fama e ci sono migliaia di giocatori, ma il gioco, negli ultimi anni, si è molto abbassato di livello. Quindi ben vengano le nuove generazioni, ma attenzione: Pagano sono 5 anni che va a premio, Minieri 3; nel chip count di Sanremo di oggi non ho trovato alcun piazzato nei precedenti Ept.

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